Cosa intendiamo per colloquio clinico? Questo è il nostro strumento di lavoro principale. Un counseling o una psicoterapia non sono altro che una serie di colloqui clinici con frequenza e durata prestabilite. Il colloquio viene condotto secondo criteri appresi durante la formazione, non c’è un solo modo di condurlo, molto dipende da cosa si sta facendo, counseling o psicoterapia e dall’approccio teorico del terapeuta. Il punto comune, però, è che il professionista non trovi le risposte al posto nostro, ma ci faccia le domande giuste al fine di facilitarci, supportarci e guidarci alla ricerca delle nostre risposte. Un bravo terapeuta non ha nessuna risposta migliore dei suoi pazienti, ma ha la capacità di aiutarli ad esplorare dentro di sé per trovare risorse, spesso inaspettate.

Le psicoterapie si dividono in focali e del profondo. Le prime sono di solito brevi (da 6 mesi ad 1 anno) e lavorano focalizzandosi sul ciò che viene portato come problema, in questo caso il cambiamento non potrà che essere superficiale. Il lavoro si incentrerebbe sul significato che il problema ha per noi in questo momento di vita e su strategie per imparare ad affrontarlo.

Le seconde hanno come obiettivo quello di intervenire sui disagi che hanno prodotto il malessere e i significati che questo ha all’interno della struttura di personalità. L’intervento è sulla persona, non sul problema, i tempi del percorso terapeutico quindi si allungano e la sua durata è meno prevedibile. Si affronta un viaggio all’interno di se stessi per ricercare un nuovo e più duraturo equilibrio. Ciò che si sta ricercando è la scoperta di come siamo fatti e che significato ha il sintomo all’interno della nostra struttura, che è il risultato di come gli eventi di vita e le relazioni importanti (genitori, fratelli, ecc) hanno influito sul nostro carattere.

Da un terapeuta di qualunque indirizzo ciò che ci dobbiamo aspettare è l’assenza di giudizio, l’accettazione e il rispetto per la nostra storia di vita, le nostre emozioni e i nostri pensieri. La sensazione di poter dire ciò che vogliamo, come di poterlo non dire. L’interesse per noi e la nostra storia. E, ovviamente, il segreto professionale. Questi sono tra i fattori non specifici della terapia e molti studiosi credono che siano l’ossatura fondamentale di una relazione terapeutica, senza la quale non si va da nessuna parte.

La terapia segue, nella maggior parte dei casi, un andamento tipico. All’inizio, probabilmente, sentiremo subito un senso di sollievo e benessere. Questo perché, di solito, il semplice parlare di noi stessi liberamente è catartico. Subentra, poi, una fase in cui potremo stare anche peggio di prima di iniziare la terapia. In questa fase i sintomi si possono riacutizzare e potremmo provare una sensazione di smarrimento. La terza fase è, infine, quella in cui andremo a costruire, non senza difficoltà e fatica, il cambiamento vero e proprio.

Ci sono poi i fattori specifici di ogni terapia, e questi dipendono dall’approccio teorico del terapeuta. La psicologia non è una scienza esatta, le spiegazioni che si danno del funzionamento della persona derivano dall’osservazione di un fenomeno che non può essere analizzato con il microscopio o con altri metodi oggettivi. I terapeuti si affidano quindi a dei modelli interpretativi. I più comuni sono quello cognitivo; quello dinamico, nel quale è annoverata al psicanalisi; quello sistemico e quello a mediazione corporea. A seguito della scelta di un dato modello, il professionista adotterà alcune tecniche di intervento e non altre. Facciamo un esempio concreto. Già la disposizione degli spazi nella stanza di terapia, il tempo a disposizione e la frequenza degli incontri hanno modalità diverse perché sottendono a visioni diverse.

In un approccio dinamico, il paziente deve dire liberamente tutto ciò che gli viene in mente, mentre il terapeuta, prevalentemente silenzioso, non si pone in una relazione dialogica, fa meno domande possibile, cerca di mantenere fluttuante la sua attenzione senza concentrarla su alcuna delle cose che gli vengono narrate, limitando i suoi interventi alle “interpretazioni”, (la verbalizzazione dei significati profondi e inconsci dell’agire e del sentire della persona). L’eventuale utilizzo del lettino e la conseguente mancanza di contatto visivo con il terapeuta dovrebbero fra l’altro, incoraggiare la persona a esprimere più liberamente il materiale inconscio, riducendo il suo imbarazzo a parlare di certi argomenti.

L’assunto teorico è che il nostro malessere derivi da materiale inconscio non elaborato e che sia la risultante di ciò che noi, senza averne coscienza, siamo riuscita a fare per tenere insieme tutti i pezzi di noi.
In un’ottica cognitiva la relazione tra la persona e il terapeuta è diretta e paritaria all’interno di uno stile collaborativo nel quale entrambi i membri della coppia terapeutica rivestono un ruolo attivo nella ricerca di soluzioni e significati che nessuno dei due possiede a priori; implica un contatto oculare, favorisce una comunicazione centrata sullo scambio verbale, con la possibilità di osservare i reciproci messaggi non verbali.

L’assunto teorico è che il sintomo sia la risultante della lettura che noi diamo del mondo, degli altri e di noi stessi. Un po’ come se tutti avessimo un nostro particolare punto di osservazione sulle cose e su noi stessi. Se è un punto troppo stretto o fisso tutto diventa falsato. Se invece riusciamo ad ampliarlo o a muoverci per cercarne anche altri, le cose assumono prospettive più utili.

Un approccio a mediazione corporea utilizza, oltre a tecniche verbali di stile collaborativo, il corpo e le posizioni che a esso possono essere fatte assumere, i movimenti, la modulazione della voce in termini espressivi, come spunto di partenza per entrare in contatto con le proprie sensazioni ed esperienze sensoriali e corporee, con i ricordi, le immagini, i significati che a esse possono essere connessi. Attraverso la scambio verbale, poi, si costruiscono connessioni tra il sentire il pensare e l’esperire della persona che generano benessere.

Ogni tipo di intervento, sia counseling che psicoterapia, può essere declinato individualmente, con la coppia o con un gruppo. Un discorso a parte merita la famiglia. Lavorare con la famiglia a sostegno di uno dei suoi componenti, può essere fatto con qualunque approccio. Lavorare con la famiglia intesa come un tutto da prendere in carico può essere fatto solo con un particolare tipo di approccio che si chiama sistemico-relazionale.

Anche le diverse fasi della vita, infanzia, adolescenza ed età adulta, meritano modalità di lavoro diverse e quindi competenze diverse.
Con i bambini, per esempio, su usa il gioco come principale strumento terapeutico. I giochi proposti dal terapeuta sono codificati e frutto di studi clinici. Il modo di giocare del bambino evidenzia la difficoltà e gli interventi del terapeuta all’interno dello spazio di gioco è l’atto terapeutico.

Per concludere, è necessario dire che, al vaglio della scienza, è risultato che tutti gli approcci terapeutici hanno le stesse percentuali di riuscita, quindi ciò che fa la differenza non è l’approccio in sé ma la competenza del terapeuta, il quale deve saper utilizzare bene qualunque approccio abbia deciso di seguire! È fondamentale inoltre il “saper essere” del terapeuta, cioè la sua capacità di stare con il vissuto della persona, qualunque esso sia, mantenendo però distinti i propri contenuti emotivi da quelli dell’altro. In questo modo potrà sia essere empatico, che riuscire a guidare la persona e non perdersi insieme a lei. La psicoterapia non è una disciplina asettica consistente semplicemente nell’applicazione di un insieme di tecniche e procedure, ma un incontro tra due persone, fra due individualità, all’interno delle norme definite dal “setting” clinico, cioè lo spazio e il tempo in cui si svolge la terapia.

Tuttavia, quando ci rivolgiamo ad un terapeuta, la comprensione del suo approccio, può essere importante per noi, in quanto, per le nostre caratteristiche personali, potremmo sentirci più o meno a nostro agio con l’una o l’altra modalità. E’, quindi, un nostro diritto chiedere spiegazioni al riguardo quando, magari dopo una lunga e combattuta riflessione, decidiamo di rivolgerci ad un professionista.

Il viaggio della psicoterapia è lungo e impegnativo. Affinché il suo esito possa essere positivo è essenziale che esista una complicità tra i compagni di viaggio e che venga percepita una congruenza emotiva che permetta loro di affrontare insieme, con fiducia e interesse, le molte difficoltà del percorso. Se le cose non dovessero essere così, dobbiamo sapere che il nostro viaggio parte già sotto cattivi auspici. Inoltre, il tempo passato nel setting è così breve rispetto al tempo della vita quotidiana che, affinché ciò che avviene al suo interno possa diventare un potente fattore di cambiamento, è necessario che assuma connotati del tutto particolari e rappresenti una situazione chiaramente distinta rispetto a qualsiasi altra situazione che ci troveremmo a vivere nella nostra vita di tutti i giorni. Per esempio, la stanza della terapia è bene che rappresenti il luogo esclusivo d’incontro tra noi e il nostro terapeuta, così come è bene che il nostro terapeuta non abbia in cura altri nostri familiari.

Infine la motivazione personale è un buon 50% della riuscita di un intervento terapeutico, quindi prima di iniziare un percorso può valere la pena di interrogarci su alcuni temi cruciali:
E’ il momento giusto? Per chi lo sto facendo? Per me o una persona importante per me? Che cosa mi aspetto? Quanto sono consapevole che sarà anche difficile e doloroso?

Se dovessimo sentirci in difficoltà o ancor più confusi davanti a questi quesiti, potremmo richiedere un colloquio anche solo per rispondere a queste domande e avvalerci dell’aiuto un professionista per chiarirci le idee.

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